L'uomo che inventò la cromatografia
Inviato: 13 mag 2018, 15:57
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I ferraresi col vino non ci hanno mai saputo fare, l’unico risultato di quelli che hanno provato a vinificare è sempre stato una specie di vinello acetoso, aspro ed imbevibile e chi, preso dall’amor proprio, ha voluto insistere bevendolo, è finito all’Oratorio di S. Anna, allora pomposamente chiamato l’Arciospedale, con gastriti, intossicazioni ed anche peggio.
Ben lo sapeva Ravlìn, che due volte all’anno andava a Rovereto e la comprava il vino, ma quello buono, quello che i veneti sanno fare bene, anche se Panocia per la verità ci ciurlava e spesso tentava di dargli dello sburiolo al posto del vino leggero da pasto o del Clinton tagliato col Merlot, per tirarlo su di gradi e non farlo andare a male quando finiva l’inverno.
Ma Ravlìn, grande e grosso come un orso, con quel nasone rubizzo che gli aveva meritato il nome, ci sapeva ben fare, il vino lo conosceva bene e gli bastava assaggiarlo per capire se era annacquato o tagliato con vini da poco conto.
Era anche furbo e la sua osteria l’aveva aperta a Cucmar, subito fuori le mura di Ferrara, per non pagare il Dazio, ma abbastanza vicino alla città perché la gente vi si recasse, chi in bici, chi col calessino, attratti dal buon vino e dal costo modesto, non gravato dai balzelli doganali.
Così, per il nostro Ravlìn, gli affari andavano a gonfie vele, per di più, l’euforia del nuovo secolo non si era attenuata e la gente ancora festeggiava l’inizio del 900 e lo scampato pericolo della annunciata fine del mondo, facendo i debiti scongiuri con allegre libagioni.
Ma, si sa, le cose troppo belle sono destinate a cambiare sempre in peggio ed il povero Ravlìn dovette andare all’Oratorio per farsi curare da certe nausee che non lo lasciavano in pace un solo momento.
La diagnosi fu presto fatta e la sentenza gli calò addosso come una mannaia: cirrosi epatica.
La prescrizione fu ancora peggiore: neppure una goccia di vino, dell’alcol non doveva più neppure sentir l’odore, figurarsi berlo !
E così le cose rapidamente peggiorarono, quel trabascano del Panocia approfittò subito della situazione e cominciò a tagliare i vini che gli forniva e così, pian piano, i clienti dell’osteria fuori le mura iniziarono a diminuire, preferendo fare due passi in più ed arrivare fino a Cona, pur di bere un vino genuino.
Credo di avervi già detto che Ravlìn era piuttosto scaltro, ma qui non sapeva proprio come risolvere la situazione: sua moglie, la buona Broca, donna minuta, ma con un testone pieno di capelli arruffati, era completamente astemia e non poteva di certo aiutarlo. Figli non ne avevano avuti, Dio aveva voluto così, e lui non si fidava di nessuno, per cui cercava disperatamente una possibile soluzione al suo grave problema.
(Continua)
I ferraresi col vino non ci hanno mai saputo fare, l’unico risultato di quelli che hanno provato a vinificare è sempre stato una specie di vinello acetoso, aspro ed imbevibile e chi, preso dall’amor proprio, ha voluto insistere bevendolo, è finito all’Oratorio di S. Anna, allora pomposamente chiamato l’Arciospedale, con gastriti, intossicazioni ed anche peggio.
Ben lo sapeva Ravlìn, che due volte all’anno andava a Rovereto e la comprava il vino, ma quello buono, quello che i veneti sanno fare bene, anche se Panocia per la verità ci ciurlava e spesso tentava di dargli dello sburiolo al posto del vino leggero da pasto o del Clinton tagliato col Merlot, per tirarlo su di gradi e non farlo andare a male quando finiva l’inverno.
Ma Ravlìn, grande e grosso come un orso, con quel nasone rubizzo che gli aveva meritato il nome, ci sapeva ben fare, il vino lo conosceva bene e gli bastava assaggiarlo per capire se era annacquato o tagliato con vini da poco conto.
Era anche furbo e la sua osteria l’aveva aperta a Cucmar, subito fuori le mura di Ferrara, per non pagare il Dazio, ma abbastanza vicino alla città perché la gente vi si recasse, chi in bici, chi col calessino, attratti dal buon vino e dal costo modesto, non gravato dai balzelli doganali.
Così, per il nostro Ravlìn, gli affari andavano a gonfie vele, per di più, l’euforia del nuovo secolo non si era attenuata e la gente ancora festeggiava l’inizio del 900 e lo scampato pericolo della annunciata fine del mondo, facendo i debiti scongiuri con allegre libagioni.
Ma, si sa, le cose troppo belle sono destinate a cambiare sempre in peggio ed il povero Ravlìn dovette andare all’Oratorio per farsi curare da certe nausee che non lo lasciavano in pace un solo momento.
La diagnosi fu presto fatta e la sentenza gli calò addosso come una mannaia: cirrosi epatica.
La prescrizione fu ancora peggiore: neppure una goccia di vino, dell’alcol non doveva più neppure sentir l’odore, figurarsi berlo !
E così le cose rapidamente peggiorarono, quel trabascano del Panocia approfittò subito della situazione e cominciò a tagliare i vini che gli forniva e così, pian piano, i clienti dell’osteria fuori le mura iniziarono a diminuire, preferendo fare due passi in più ed arrivare fino a Cona, pur di bere un vino genuino.
Credo di avervi già detto che Ravlìn era piuttosto scaltro, ma qui non sapeva proprio come risolvere la situazione: sua moglie, la buona Broca, donna minuta, ma con un testone pieno di capelli arruffati, era completamente astemia e non poteva di certo aiutarlo. Figli non ne avevano avuti, Dio aveva voluto così, e lui non si fidava di nessuno, per cui cercava disperatamente una possibile soluzione al suo grave problema.
(Continua)